UN INCENDIO DI RICORDI
ORA Casa a Nopat 42 a.C.
Bruciava. Tutto bruciava. Il fuoco iniziò ad incenerire tutti gli oggetti che segnavano ogni singolo ricordo di Toshe. Toshe, con i suoi capelli biondo ramato che ad ogni tocco dei raggi solari splendevano come frecce di luce e con i suoi occhi verdi come le cime degli alberi e che ormai avevano tastato tanto il sapore delle lacrime. La sua casa stava andando a fuoco, la casa che aveva tanto amato, ma che fu tanto distante per anni. Ormai, tutte quelle emozioni che provò in quel periodo iniziavano a ridursi in un’unica cosa: il nulla. La sua pelle iniziava ad ardere e lui, sempre più confuso, non muoveva un singolo dito, mentre il fuoco lo divorava lentamente.
TRE ANNI PRIMA Tribù dei Tartào 45 a.C.
«Avanti su, cammina!», disse Rontar, il capo della tribù Tartào. «Il sole smetterà di bruciare tra qualche ora e quando accadrà, voglio essere accampato a sorseggiare del buon vino», urlò severamente, con una voce così roca al punto di far credere alla sua gente che avesse mangiato le falangi del padre che tentò di torturarlo, e che una gli rimase conficcata nella trachea. Non per nulla veniva chiamato “Il Divoratore di Ossa”!
Toshe, ancora quattordicenne, fu rapito da Rontar mentre era col padre al mercato di Nopat, il villaggio sorto ai piedi del fiume Kortan. Il padre, Teron di Nopat, era un nobiluomo mentre era ancora in vita, ma morì per mano di Lotak, servo di Rontar, quel giorno al villaggio; la madre, Narua, invece, morì di parto.
«Avanti su, non perdere tempo!», urlò un’ennesima volta il Divoratore di Ossa.
«A questo punto mi farete incenerire i piedi!», esclamò Toshe esausto, trainato da Lotak, con le mani legate ad un filo che fungeva quasi da guinzaglio.
«Se c’è una cosa di cui non mi importa nulla da ben 4 anni è della tua salute. Ora: o ti muovi oppure ti lasciamo qui, in modo da farti sbranare da qualche entità celata nella notte».
«Rontar! Sua moglie!», urlò una donna in lontananza, con aggrappata una signora che sicuramente non era in possesso di una bella cera. «Sta per partorire! Dobbiamo accamparci qui!»
«Qui? Starai scherzando! Il sentiero è troppo arido e non conosciamo i pericoli imminenti! Non possiamo, non possiamo», sopraggiunse Rontar, appoggiandosi la mano alla fronte, pensieroso. «Diavolo, non può aspettare?», chiese.
Toshe non lo aveva mai visto in quelle condizioni, un misto di paura e felicità assaliva la sua espressione facciale.
«E sia, ci fermiamo qui».
ORA Casa a Nopat 42 a.C.
Suo padre. Ancora quel pensiero lo assaliva. Nonostante l’incendio in casa, lui, morente, non poteva non ripensare alla scena del suo rapimento e dell’omicidio di suo padre, che rimaneva ancora bruciante nella sua mente.
SETTE ANNI PRIMA Mercato di Nopat 49 a.C.
«Papà, ma cosa siamo venuti a fare qui?»
«Dobbiamo acquistare due nuove spade arrotondate», disse Teron. «Ti avevo promesso che ti avrei insegnato l’arte della Scherma, Toshe.»
Il mercato traboccava di gemme, armi, vesti in seta che venivano mosse dal fresco e leggero venticello che soffiava da Nord, cibi il cui maestoso odore veniva soffiato verso il suo naso e animali di tutte le specie, separati da un recinto. Finalmente, con tutto l’entusiasmo di Toshe, arrivarono alla fucina del Fabbro.
«Salute, Ser Qhotir», salutò Teron. «Sono venuto qui per ritirare quello che le avevo chiesto l’altro giorno»
«Ma certo, Ser Teron, dico subito al mio assistente di portargliele», disse Qhotir il fabbro avvicinando entrambe le mani alla bocca. «Ehi, Rontar, portami le spade per Teron!»
«Ma certo, le porto subito», urlò in lontananza Rontar, prendendo le spade nella cesta accanto la fucina e subito avviatosi verso di loro, seguito da uno strano uomo, con una spada adagiata alla sua cintura. «Ecco qui, come nuove!», disse Rontar porgendogli le spade.
«Un attimo, io ti conosco!», esclamò il padre, travolto da una sensazione di paura.
«Come può non farlo?», gli sussurrò l’uomo, osservando Rontar.
«Rontar…Il Tartào! Cosa diavolo ci fai qui?»
«Lotak, sai cosa devi fare», disse tranquillamente Rontar, fissando Toshe.
Lotak, in meno di un attimo, sfoderò l’enorme spada e trafisse Teron alla schiena, lasciandolo inerme a terra, immerso in una pozza di sangue. Del suo sangue.
ORA Casa a Nopat 42 a.C.
Quel sangue, che ogni giorno annebbiava i sogni di Toshe, accompagnato dalla vista del padre morente, mentre Rontar lo trascinava via, tenendogli la bocca chiusa con una mano. Quel sangue, il sangue che scorreva nelle sue vene, che aveva visto versare per terra, come se fosse acqua versata per terra. Ma non era acqua quella versata, era la vita del padre. E ora, anche lui stava per perdere la vita, diventando acqua versata su sabbia.
TRE ANNI PRIMA Tribù dei Tartào 45 a.C.
Fu una notte molto lunga, il cielo sembrava non voler lasciar andare la luna. Roashai, la moglie di Rontar, aveva partorito.
“Dovrei fare visita a quei bastardi, in fondo non mi hanno ancora ucciso. Sono loro debitore…o quasi.”, pensò Toshe, indirizzandosi verso la tenda di Rontar e Roashai. Non fece nemmeno in tempo di avvicinarsi che Rontar sbucò fuori.
«Che diavolo ci fai tu qui?», ululò Rontar, osservandolo come un lupo inferocito.
«Venivo a portare i miei auguri per il nascituro», rispose Toshe.
«Ah…Grazie»
Toshe sapeva di non essere li solo per quello. Sapeva di dover tirare fuori una domanda celata nelle viscere della sua mente che prima o poi avrebbe dovuto far uscire dalla sua bocca. «Perché hai fatto uccidere mio padre?»
«Mi aveva rubato una cosa tempo fa, una cosa per cui ancora oggi, senza, mi sento morire.», rispose Rontar con gli occhi rivolti verso il basso.
«Potrei sapere cosa? Sono pur sempre affari di mio padre.»
«Sarai suo figlio, ma sappi che è una cosa che non verrà mai fuori dalla mia bocca».
VENTICINQUE ANNI PRIMA Parco di Nopat 67 a.C.
«Avanti su, qualcuno potrebbe vederci!», sussurrò una ragazza bionda e bellissima all’orecchio del suo uomo.
«Che vedano, non mi fanno mica paura quelli lì! E sai, non ho nemmeno paura di quel Teron, eh! Andando a lui, ancora non ho capito perché tuo padre vuole assolutamente farti sposare con lui! Ancora non gli hai nemmeno parlato di me!»
«Lo so e mi dispiace, ma non posso. Purtroppo ti ho parlato di mio padre, sai che tipo d’uomo è. Basta solo un errore e potrei ritrovarmi monca per tutta la vita. E poi vuole farmi sposare con Teron in modo da unire le due famiglie, bla bla bla.», disse la ragazza. Quella ragazza era Narua.
«Sappi che io impedirò ogni singola unione con quello lì», aggiunse l’uomo baciandola, sotto il chiarore della luna.
«Narua! Dove diamine sei!», urlò Teron in lontananza, facendo sussultare i due innamorati e costringendoli a nascondersi dietro un cespuglio. «So che sei qui! E so pure con chi!»
«Diavolo, ci ha scoperti», sussurrò l’uomo.
«E non sono solo! C’è pure tuo padre con me!»
«Uscite fuori e porrò una pietra sopra questa storia!», urlò il padre.
I ragazzi, spaventati, uscirono fuori dal loro nascondiglio, ma a quanto pare il padre di Narua, Nortur, non rispettò il patto.
«Tu, schifoso bastardo!», urlò Nortur scaraventandosi con la spada sguainata verso il ragazzo. «Me la pagherai per questo!».
Il ragazzo, confuso, bloccò Nortur gettandolo a terra e sconvolto dal terrore, raccolse la spada da terra e vi trafisse l’uomo nella gola, facendolo morire lentamente.
«No! Cosa diavolo hai fatto! Non dovevamo arrivare a questo!», urlò Narua.
«Narua, amore mio, ora però possiamo stare insieme! Su, andiamo!», tentò di difendersi il ragazzo.
«Insieme? Scusami, dopo questa sappi che non ti perdonerò mai. Mi dispiace, Rontar.»
ORA Casa a Nopat 42 a.C.
Le fiamme continuarono a distruggere ogni singolo oggetto potesse risultare ancora familiare per Toshe, ma ancora i suoi ricordi restavano intatti.
TRE ANNI PRIMA Tribù dei Tartào 45 a.C.
«Avanti su, ti libero!», disse Rontar a Toshe, prendendogli le catene e spezzandole con un fendente di spada. «Non osare chiedermi il perché e fuggi, ora che puoi! Potrei pentirmene!»
«Ma..», aggiunse Toshe, più confuso che mai. “Come mai mi sta liberando? Cosa sta accadendo?”.
«Ma nulla! Via!», gli urlò contro Rontar.
Toshe, ormai libero, fuggì. Fuggì il più possibile, ritrovandosi, dopo molti giorni di viaggio, a casa.
“Bravo ragazzo. Finalmente ho chiarito ogni mio singolo dubbio”, pensò Rontar.
VENTIDUE ANNI PRIMA Casa a Nopat 64 a.C.
«No ti prego, piano! Piano!», urlava Narua. «Per favore Teron, mi fai male!».
Erano nel pieno dell’intimità, o almeno quasi. Teron indossava una maschera. Secondo Narua rendeva le cose più eccitanti.
Si udì bussare con violenza contro la porta. «Narua! Esci di lì! Non sono io! Non sono io!», urlò una voce dall’esterno. Era una voce familiare. “Ma è Teron!”, pensò Narua. «Tu! Chi diavolo sei?», chiese urlando e subito rimuovendo la maschera a l’uomo. «Rontar!»
«No, non spaventarti! Tu sai che ti amo! Pensavo a te ogni sera, ogni singola sera! Mi mancavi troppo, son passati 3 anni, ma che son parsi millenni. Perdonami tesoro!», supplicò Rontar.
«Perdonarti? Mai!», urlò la ragazza schiaffeggiandolo così forte al punto di scaraventarlo per terra. «Vai via, non voglio vederti più! Mai più!»
Rontar, rassegnato, fuggì via dalla finestra, sparendo verso l’orizzonte.
UN ANNO PRIMA Tribù dei Tartào 43 a.C.
«Sono stufo, il ragazzo morirà!», urlò Lotak, ribellandosi al suo capo.
«Tu non lo toccherai! Toshe non dev’essere toccato! Osa solo fargli uscire una goccia di sangue e ti giuro che tu di sangue ne perderai a litri!», rispose Rontak, su tutte le furie.
«Bene, allora inizia pure!», urlò Lotak, uscendo dalla tenda e salendo sul cavallo, dirigendosi verso Nopat, inseguito da Rontar.
«Tu! Morirai!», urlò a cavallo Rontar, lanciando con una mira formidabile il coltello a Lotak, colpendolo nel cranio. «Nessuno deve permettersi di toccare mio figlio!»
DUE GIORNI FA Casa a Nopat 42 a.C.
Toshe, assalito dalla curiosità, vagò per casa, alla ricerca di qualche oggetto risalente all’infanzia dei suoi genitori. Frugò tra i vecchi cassetti del padre, non trovando nulla, ma non poteva dirsi la stessa cosa con quello della madre. Frugando tra gli abiti, trovò una lettera malconcia, lasciata per Rontar. “Rontar? Cosa diavolo c’entra lui?”, pensò Toshe, perplesso.
“Caro Rontar, ti scrivo questa lettera per chiarire dei dubbi risalenti alla nostra relazione tumultuosa. Ma taglierò corto con le parole: quella sera, quando ti mascherasti, facendoti passare per Teron, nacque qualcosa. Quel qualcosa è mio figlio o meglio, nostro figlio, che ormai è sul punto di venire al mondo. Mi dispiace, Rontar. Ma ormai la mia vita appartiene a Teron, quindi in qualsiasi caso, non andrò mai via da lui e tu, dovrai dimenticarmi.”
“Io? Figlio di Rontar? Ma che razza di scherzo è mai questo?”, pensò Toshe esplodendo in lacrime. “È mai possibile? No, non ci credo. E non lo farò mai. Io non posso essere suo figlio”.
QUALCHE ORA PRIMA Casa a Nopat 42 a.C.
Bussarono parecchie volte alla porta e Toshe, con ritardo, aprì la porta.
«Tu! Cosa vuoi da me? Perché sei qui?», urlò Toshe. Era Rontar.
«Devo parlarti.»
«Parlarmi? Di cosa? Non ho nulla da dirti! Vai via!»
«Conosco la verità che mi ha celato tua madre. Ora finalmente ho le idee più chiare. Figliolo!»
«Figliolo? Io non sarò mai tuo figlio! Mio padre era Teron, mia madre Narua! Il sangue non fa la parentela! Tu non sarai mai mio padre!», esclamò Toshe.
«Lo so, sono qui per questo. Consideralo un atto a tuo favore.», disse lievemente Rontar, facendo fuoriuscire dal suo fodero la spada e infine trafiggendo il ragazzo.
Dopo averlo trafitto, lo sollevò e lo posò al centro della casa, appiccando subito un incendio. Uscì di casa, ancora con la spada in mano.
“Io non sarò mai tuo padre e questo lo so già. Infatti, ringraziami. Tornerai dai tuoi veri genitori. Sarai felice con loro. Li rivedrai e finalmente, tuo padre potrà insegnarti l’arte della Scherma come ti aveva promesso in passato. Tu salirai, io scenderò.”, pensò Rontar, subito infilzandosi la spada in pieno petto, rimanendo agonizzante per terra.
ORA Casa a Nopat 42 a.C.
“Sto morendo. Madre, padre, tornerò da voi!”, pensò Toshe.
Morì, non soffrendo, ma pensando. Morì con un pensiero felice. La sua pelle si ridusse in cenere, unendosi alla terra come quando l’acqua bagna la sabbia. Morì.
Morì in un incendio di ricordi.
Bruciava. Tutto bruciava. Il fuoco iniziò ad incenerire tutti gli oggetti che segnavano ogni singolo ricordo di Toshe. Toshe, con i suoi capelli biondo ramato che ad ogni tocco dei raggi solari splendevano come frecce di luce e con i suoi occhi verdi come le cime degli alberi e che ormai avevano tastato tanto il sapore delle lacrime. La sua casa stava andando a fuoco, la casa che aveva tanto amato, ma che fu tanto distante per anni. Ormai, tutte quelle emozioni che provò in quel periodo iniziavano a ridursi in un’unica cosa: il nulla. La sua pelle iniziava ad ardere e lui, sempre più confuso, non muoveva un singolo dito, mentre il fuoco lo divorava lentamente.
TRE ANNI PRIMA Tribù dei Tartào 45 a.C.
«Avanti su, cammina!», disse Rontar, il capo della tribù Tartào. «Il sole smetterà di bruciare tra qualche ora e quando accadrà, voglio essere accampato a sorseggiare del buon vino», urlò severamente, con una voce così roca al punto di far credere alla sua gente che avesse mangiato le falangi del padre che tentò di torturarlo, e che una gli rimase conficcata nella trachea. Non per nulla veniva chiamato “Il Divoratore di Ossa”!
Toshe, ancora quattordicenne, fu rapito da Rontar mentre era col padre al mercato di Nopat, il villaggio sorto ai piedi del fiume Kortan. Il padre, Teron di Nopat, era un nobiluomo mentre era ancora in vita, ma morì per mano di Lotak, servo di Rontar, quel giorno al villaggio; la madre, Narua, invece, morì di parto.
«Avanti su, non perdere tempo!», urlò un’ennesima volta il Divoratore di Ossa.
«A questo punto mi farete incenerire i piedi!», esclamò Toshe esausto, trainato da Lotak, con le mani legate ad un filo che fungeva quasi da guinzaglio.
«Se c’è una cosa di cui non mi importa nulla da ben 4 anni è della tua salute. Ora: o ti muovi oppure ti lasciamo qui, in modo da farti sbranare da qualche entità celata nella notte».
«Rontar! Sua moglie!», urlò una donna in lontananza, con aggrappata una signora che sicuramente non era in possesso di una bella cera. «Sta per partorire! Dobbiamo accamparci qui!»
«Qui? Starai scherzando! Il sentiero è troppo arido e non conosciamo i pericoli imminenti! Non possiamo, non possiamo», sopraggiunse Rontar, appoggiandosi la mano alla fronte, pensieroso. «Diavolo, non può aspettare?», chiese.
Toshe non lo aveva mai visto in quelle condizioni, un misto di paura e felicità assaliva la sua espressione facciale.
«E sia, ci fermiamo qui».
ORA Casa a Nopat 42 a.C.
Suo padre. Ancora quel pensiero lo assaliva. Nonostante l’incendio in casa, lui, morente, non poteva non ripensare alla scena del suo rapimento e dell’omicidio di suo padre, che rimaneva ancora bruciante nella sua mente.
SETTE ANNI PRIMA Mercato di Nopat 49 a.C.
«Papà, ma cosa siamo venuti a fare qui?»
«Dobbiamo acquistare due nuove spade arrotondate», disse Teron. «Ti avevo promesso che ti avrei insegnato l’arte della Scherma, Toshe.»
Il mercato traboccava di gemme, armi, vesti in seta che venivano mosse dal fresco e leggero venticello che soffiava da Nord, cibi il cui maestoso odore veniva soffiato verso il suo naso e animali di tutte le specie, separati da un recinto. Finalmente, con tutto l’entusiasmo di Toshe, arrivarono alla fucina del Fabbro.
«Salute, Ser Qhotir», salutò Teron. «Sono venuto qui per ritirare quello che le avevo chiesto l’altro giorno»
«Ma certo, Ser Teron, dico subito al mio assistente di portargliele», disse Qhotir il fabbro avvicinando entrambe le mani alla bocca. «Ehi, Rontar, portami le spade per Teron!»
«Ma certo, le porto subito», urlò in lontananza Rontar, prendendo le spade nella cesta accanto la fucina e subito avviatosi verso di loro, seguito da uno strano uomo, con una spada adagiata alla sua cintura. «Ecco qui, come nuove!», disse Rontar porgendogli le spade.
«Un attimo, io ti conosco!», esclamò il padre, travolto da una sensazione di paura.
«Come può non farlo?», gli sussurrò l’uomo, osservando Rontar.
«Rontar…Il Tartào! Cosa diavolo ci fai qui?»
«Lotak, sai cosa devi fare», disse tranquillamente Rontar, fissando Toshe.
Lotak, in meno di un attimo, sfoderò l’enorme spada e trafisse Teron alla schiena, lasciandolo inerme a terra, immerso in una pozza di sangue. Del suo sangue.
ORA Casa a Nopat 42 a.C.
Quel sangue, che ogni giorno annebbiava i sogni di Toshe, accompagnato dalla vista del padre morente, mentre Rontar lo trascinava via, tenendogli la bocca chiusa con una mano. Quel sangue, il sangue che scorreva nelle sue vene, che aveva visto versare per terra, come se fosse acqua versata per terra. Ma non era acqua quella versata, era la vita del padre. E ora, anche lui stava per perdere la vita, diventando acqua versata su sabbia.
TRE ANNI PRIMA Tribù dei Tartào 45 a.C.
Fu una notte molto lunga, il cielo sembrava non voler lasciar andare la luna. Roashai, la moglie di Rontar, aveva partorito.
“Dovrei fare visita a quei bastardi, in fondo non mi hanno ancora ucciso. Sono loro debitore…o quasi.”, pensò Toshe, indirizzandosi verso la tenda di Rontar e Roashai. Non fece nemmeno in tempo di avvicinarsi che Rontar sbucò fuori.
«Che diavolo ci fai tu qui?», ululò Rontar, osservandolo come un lupo inferocito.
«Venivo a portare i miei auguri per il nascituro», rispose Toshe.
«Ah…Grazie»
Toshe sapeva di non essere li solo per quello. Sapeva di dover tirare fuori una domanda celata nelle viscere della sua mente che prima o poi avrebbe dovuto far uscire dalla sua bocca. «Perché hai fatto uccidere mio padre?»
«Mi aveva rubato una cosa tempo fa, una cosa per cui ancora oggi, senza, mi sento morire.», rispose Rontar con gli occhi rivolti verso il basso.
«Potrei sapere cosa? Sono pur sempre affari di mio padre.»
«Sarai suo figlio, ma sappi che è una cosa che non verrà mai fuori dalla mia bocca».
VENTICINQUE ANNI PRIMA Parco di Nopat 67 a.C.
«Avanti su, qualcuno potrebbe vederci!», sussurrò una ragazza bionda e bellissima all’orecchio del suo uomo.
«Che vedano, non mi fanno mica paura quelli lì! E sai, non ho nemmeno paura di quel Teron, eh! Andando a lui, ancora non ho capito perché tuo padre vuole assolutamente farti sposare con lui! Ancora non gli hai nemmeno parlato di me!»
«Lo so e mi dispiace, ma non posso. Purtroppo ti ho parlato di mio padre, sai che tipo d’uomo è. Basta solo un errore e potrei ritrovarmi monca per tutta la vita. E poi vuole farmi sposare con Teron in modo da unire le due famiglie, bla bla bla.», disse la ragazza. Quella ragazza era Narua.
«Sappi che io impedirò ogni singola unione con quello lì», aggiunse l’uomo baciandola, sotto il chiarore della luna.
«Narua! Dove diamine sei!», urlò Teron in lontananza, facendo sussultare i due innamorati e costringendoli a nascondersi dietro un cespuglio. «So che sei qui! E so pure con chi!»
«Diavolo, ci ha scoperti», sussurrò l’uomo.
«E non sono solo! C’è pure tuo padre con me!»
«Uscite fuori e porrò una pietra sopra questa storia!», urlò il padre.
I ragazzi, spaventati, uscirono fuori dal loro nascondiglio, ma a quanto pare il padre di Narua, Nortur, non rispettò il patto.
«Tu, schifoso bastardo!», urlò Nortur scaraventandosi con la spada sguainata verso il ragazzo. «Me la pagherai per questo!».
Il ragazzo, confuso, bloccò Nortur gettandolo a terra e sconvolto dal terrore, raccolse la spada da terra e vi trafisse l’uomo nella gola, facendolo morire lentamente.
«No! Cosa diavolo hai fatto! Non dovevamo arrivare a questo!», urlò Narua.
«Narua, amore mio, ora però possiamo stare insieme! Su, andiamo!», tentò di difendersi il ragazzo.
«Insieme? Scusami, dopo questa sappi che non ti perdonerò mai. Mi dispiace, Rontar.»
ORA Casa a Nopat 42 a.C.
Le fiamme continuarono a distruggere ogni singolo oggetto potesse risultare ancora familiare per Toshe, ma ancora i suoi ricordi restavano intatti.
TRE ANNI PRIMA Tribù dei Tartào 45 a.C.
«Avanti su, ti libero!», disse Rontar a Toshe, prendendogli le catene e spezzandole con un fendente di spada. «Non osare chiedermi il perché e fuggi, ora che puoi! Potrei pentirmene!»
«Ma..», aggiunse Toshe, più confuso che mai. “Come mai mi sta liberando? Cosa sta accadendo?”.
«Ma nulla! Via!», gli urlò contro Rontar.
Toshe, ormai libero, fuggì. Fuggì il più possibile, ritrovandosi, dopo molti giorni di viaggio, a casa.
“Bravo ragazzo. Finalmente ho chiarito ogni mio singolo dubbio”, pensò Rontar.
VENTIDUE ANNI PRIMA Casa a Nopat 64 a.C.
«No ti prego, piano! Piano!», urlava Narua. «Per favore Teron, mi fai male!».
Erano nel pieno dell’intimità, o almeno quasi. Teron indossava una maschera. Secondo Narua rendeva le cose più eccitanti.
Si udì bussare con violenza contro la porta. «Narua! Esci di lì! Non sono io! Non sono io!», urlò una voce dall’esterno. Era una voce familiare. “Ma è Teron!”, pensò Narua. «Tu! Chi diavolo sei?», chiese urlando e subito rimuovendo la maschera a l’uomo. «Rontar!»
«No, non spaventarti! Tu sai che ti amo! Pensavo a te ogni sera, ogni singola sera! Mi mancavi troppo, son passati 3 anni, ma che son parsi millenni. Perdonami tesoro!», supplicò Rontar.
«Perdonarti? Mai!», urlò la ragazza schiaffeggiandolo così forte al punto di scaraventarlo per terra. «Vai via, non voglio vederti più! Mai più!»
Rontar, rassegnato, fuggì via dalla finestra, sparendo verso l’orizzonte.
UN ANNO PRIMA Tribù dei Tartào 43 a.C.
«Sono stufo, il ragazzo morirà!», urlò Lotak, ribellandosi al suo capo.
«Tu non lo toccherai! Toshe non dev’essere toccato! Osa solo fargli uscire una goccia di sangue e ti giuro che tu di sangue ne perderai a litri!», rispose Rontak, su tutte le furie.
«Bene, allora inizia pure!», urlò Lotak, uscendo dalla tenda e salendo sul cavallo, dirigendosi verso Nopat, inseguito da Rontar.
«Tu! Morirai!», urlò a cavallo Rontar, lanciando con una mira formidabile il coltello a Lotak, colpendolo nel cranio. «Nessuno deve permettersi di toccare mio figlio!»
DUE GIORNI FA Casa a Nopat 42 a.C.
Toshe, assalito dalla curiosità, vagò per casa, alla ricerca di qualche oggetto risalente all’infanzia dei suoi genitori. Frugò tra i vecchi cassetti del padre, non trovando nulla, ma non poteva dirsi la stessa cosa con quello della madre. Frugando tra gli abiti, trovò una lettera malconcia, lasciata per Rontar. “Rontar? Cosa diavolo c’entra lui?”, pensò Toshe, perplesso.
“Caro Rontar, ti scrivo questa lettera per chiarire dei dubbi risalenti alla nostra relazione tumultuosa. Ma taglierò corto con le parole: quella sera, quando ti mascherasti, facendoti passare per Teron, nacque qualcosa. Quel qualcosa è mio figlio o meglio, nostro figlio, che ormai è sul punto di venire al mondo. Mi dispiace, Rontar. Ma ormai la mia vita appartiene a Teron, quindi in qualsiasi caso, non andrò mai via da lui e tu, dovrai dimenticarmi.”
“Io? Figlio di Rontar? Ma che razza di scherzo è mai questo?”, pensò Toshe esplodendo in lacrime. “È mai possibile? No, non ci credo. E non lo farò mai. Io non posso essere suo figlio”.
QUALCHE ORA PRIMA Casa a Nopat 42 a.C.
Bussarono parecchie volte alla porta e Toshe, con ritardo, aprì la porta.
«Tu! Cosa vuoi da me? Perché sei qui?», urlò Toshe. Era Rontar.
«Devo parlarti.»
«Parlarmi? Di cosa? Non ho nulla da dirti! Vai via!»
«Conosco la verità che mi ha celato tua madre. Ora finalmente ho le idee più chiare. Figliolo!»
«Figliolo? Io non sarò mai tuo figlio! Mio padre era Teron, mia madre Narua! Il sangue non fa la parentela! Tu non sarai mai mio padre!», esclamò Toshe.
«Lo so, sono qui per questo. Consideralo un atto a tuo favore.», disse lievemente Rontar, facendo fuoriuscire dal suo fodero la spada e infine trafiggendo il ragazzo.
Dopo averlo trafitto, lo sollevò e lo posò al centro della casa, appiccando subito un incendio. Uscì di casa, ancora con la spada in mano.
“Io non sarò mai tuo padre e questo lo so già. Infatti, ringraziami. Tornerai dai tuoi veri genitori. Sarai felice con loro. Li rivedrai e finalmente, tuo padre potrà insegnarti l’arte della Scherma come ti aveva promesso in passato. Tu salirai, io scenderò.”, pensò Rontar, subito infilzandosi la spada in pieno petto, rimanendo agonizzante per terra.
ORA Casa a Nopat 42 a.C.
“Sto morendo. Madre, padre, tornerò da voi!”, pensò Toshe.
Morì, non soffrendo, ma pensando. Morì con un pensiero felice. La sua pelle si ridusse in cenere, unendosi alla terra come quando l’acqua bagna la sabbia. Morì.
Morì in un incendio di ricordi.
I QUATTRO ARATON
Finalmente mi hanno regalato quel libro che avevo tanto desiderato “Nel mondo della fantasia”. Mi metto comodo sul divano e incomincio a leggere. Sono a pagina 10, quando una forza inspiegabile mi afferra e mi risucchia nel libro. “Meraviglia delle meraviglie! Ma dove sono andato a finire?” penso. Non posso non ricordare cos’ho letto. “La storia narra di una ragazza, dolce e con i capelli rossi. Fu risucchiata anche lei da un libro e si trovò in una certa Terra di Rhatos. Trovò una spada e non solo. Nella sua mano apparve ad un tratto uno strano cuoricino rosso. Spaventata e non sapendo cosa fare, si recò verso l’interno della foresta. Quella foresta non era adatta per lei. Era stracolmo di creature orribili e violente. Il sangue di quelle creature, uccise dalla ragazza, restò rovesciato sulla terra, lasciando dietro la ragazza una scia di sangue. Con la sua potenza, riuscì a conquistare la Terra di Rhatos e prese il ruolo di prima Araton (Campione). Ma lei, essendo impazzita, fu rinchiusa dai suoi stessi soldati, ossia delle enormi carte da gioco, nella foresta da cui arrivò. Fu fatta prigioniera come fosse un’assassina. Fuori dal cammino che tracciò lei tempo fa, non ci più segno della sua esistenza. Il secondo Araton era un ragazzo dai capelli azzurri e nel polso gli apparve il simbolo dell’asso di Quadri. Con lo stesso destino, arrivò anche lui nella Terra di Rhatos, accompagnato dal suo flauto che tanto amava. Seguendo la traccia quasi indelebile del sangue lasciato dalla prima Araton, arrivò al castello. Diventò l’Araton incantando ogni singola persona che ascoltasse le sue favolose melodie, grazie al suo flauto che apparentemente diventò magico. Purtroppo, la magia ha sempre un prezzo. Ogni singola nota suonata da quel flauto avrebbe sconvolto il cervello degli altri sotto forma di Follia. Tutta quella Follia ebbe un effetto totalmente devastante su un uomo in generale. Impazzito totalmente, entrò nella stanza reale e sparò proprio in mezzo agli occhi il ragazzo. Non uscì sangue, ma crebbe un bellissimo fiore color cremisi, che cantava la verità alle persone dal cuore puro. Aveva una particolarità, più tempo veniva ammirato più per il secondo Araton arrivava la sua ora. Morì e quel fiore fu totalmente estirpato dalla sua testa e fu piantato proprio vicino al laghetto da cui arrivò. La terza Araton era una splendida ragazza dai capelli verdi, che come i precedenti, fu catapultata nella Terra di Rhatos. Stavolta nel suo petto apparve il simbolo dell’Asso di Fiori e si ritrovò con un anello al dito. Era una ragazza con un cuore purissimo. Trovò il Fiore del secondo Araton, ma lei, fuori di sé, a causa della paura, dopo aver ascoltato le indicazioni dal fiore, lo gettò in acqua, facendone perdere totalmente le tracce, o almeno non proprio. Entrò nella Foresta, ma si perse. Tentando di recuperare la strada si imbatté in un gatto enorme. Non appena esso attorcigliava la sua coda diventava invisibile. Fu sconvolta non appena scoprì che parlava ed il gatto le diede informazioni per arrivare al posto desiderato, ma ad un prezzo: sarebbe ritornato per chiedere qualche anno della sua vita in cambiò del trono. Salì al potere grazie alla magia, ma il gatto non dimenticò il patto precedentemente fatto. Andò a riscuotere i suoi anni e la ragazza diventò ad un tratto vecchia, spaventando i suoi sudditi. In preda al panico si suicidò e i fedeli conservarono in suo onore l’anello dell’Araton. Il quarto Araton (o meglio quarti) furono due ragazzini gemelli, una ragazza ed un ragazzo. La prima era quella più istintiva, coraggiosa e leale, il secondo il più intelligente. Nelle loro mani apparve metà simbolo dell’Asso di Picche per ognuno. Passeggiando tranquillamente nella foresta, trovarono una cella, a quanto pare fu incantata. All’interno vi era la prima Araton. Il ragazzo sapeva di non doversi avvicinare, ma convinto dalla ragazza, tentò di parlare alla prima Araton ma lei gli spezzò il collo, lasciandolo per terra, morto. La ragazzina, in preda al panico, fuggì e si ritrovò al Castello. I sudditi notarono il simbolo di Picche, che divenne intero dopo la morte del fratello, nella sua mano e lei diventò ufficialmente la quarta Araton della Terra di Rhatos.”
“Cosa diavolo ci faccio io qui? Non saro mica un Araton?”, penso, controllandomi ogni singola parte del corpo. “Sicuramente sarà tutto un sogno da cui mi sveglierò presto!”. A quanto pare ogni singolo luogo risulta uguale a quello descritto dal libro. Io, già conoscente della via da seguire, arrivo al castello e mi ritrovo davanti delle enormi Carte da Gioco con il Simbolo di Picche. Sicuramente saranno i sorveglianti della Sala Reale.
«Vorrei parlare con l’Araton!», dico io con voce calma e quasi balbettando, senza ottenere risposta.
« Devo farlo! Per favore!», supplico.
«Scusa, non è possibile!», mi risponde nuovamente la guardia stavolta con un volto impietosito.
«Lascialo passare!», dice una voce sublime dall’interno della sala. Una voce tanto innocente, di cui è bastato udirne il suono un attimo per mandarmi con la testa fra le nuvole!
Vedo uscire una bellissima ragazza, bionda e con un abito totalmente bianco con disegnato un’ asso di Picche. «Qual è il tuo nome, straniero?»
«L…Lèon!», dico con un filo di voce. Quella ragazza è tanto bella quanto pericolosa. Non accenna nemmeno ad un sorriso di benvenuto, solo ad uno sguardo freddo, vuoto. «Potrei parlarle? Le do del lei, se non le dispiace!»
«Chiamami come vuoi, non mi fa alcuna differenza. Entra pure!», dice voltandomi le spalle e iniziando a camminare verso il suo trono.
«Scusami…Ops, mi scusi. Sono arrivato qui, dal nulla. Non so nemmeno com’è stato possibile! Stavo serenamente leggendo un libro e mi ritrovo qui, dal nulla. Mi scusi, ma sono totalmente spaesato!»
«Come? Starai scherzando! Come puoi essere qui? Dio mio, un’altra volta! E’ successo un’altra volta!», urla lei prendendomi per mano e portandomi in alto ad una torre. « Devo parlarvi! E’ arrivato un nuovo “Straniero”!», dice con tono nervoso a due anziani con una barba lunghissima, seduti ad un tavolo.
«Cosa? Mia signora, sta parlando seriamente? Lui è nuovo?», aggiunge uno di loro, il più basso.
« Dai, non mi vorrete dire che ora divento un..Araton!», rispondo ironicamente esplodendo a ridere e seguito da uno schiaffo dietro la nuca dalla ragazza.
«Taci, idiota! Sentite dobbiamo risolvere, deve tornare nel suo mondo, non può stare qui! C’è un modo?», chiede lei.
«In fondo un modo c’è. Dovete trovare gli oggetti dei precedenti Ataron!», risponde il secondo anziano.
«Bene, andremo ora stesso, senza perder tempo!», dice concludendo la conversazione e portandomi con sé.
Mi porta in una Cripta, dove avrei già dovuto immaginare cosa vi avrei trovato. Prese un piccolo forziere da cui raccolse un anello con una bellissima gemma verde. Sapevo già la sua storia. «Immagino tu sappia già di chi sia! Lo sai, no?», mi chiede lei.
«Si, della terza Araton!», rispondo con aria perplessa.
Correndo, mi portò subito al lago, mi chiedo come non mi ha portato subito alla cella. «Mi sbaglio o il fiore è andato perduto?»
«No, c’è ancora traccia. Dobbiamo solo trovarla. Ah! Trovata! Guarda li!», esclama indicando l’altra riva del lago. Non attento nemmeno che corro a prenderne la restante parte e ci dirigiamo subito alla cella.
«Ci incontriamo di nuovo, maledetta!», urla nervosamente ad una ragazza all’interno di quel posto buio.
«Mh, hai un buon odore. Ah, ora ricordo! La ragazza a cui ho ucciso il fratellino! Oh poverino, lui te lo aveva detto! Ma non conosco te», dice tentando di provocare la Araton e indicandomi.
«Non sono affari tuoi! Siamo qui per la spada!»
«La spada? Te la do volentieri! A cosa ti serve, scusa?», chiede la Araton consegnando la spada tranquillamente ma con i nostri sospetti.
«Mi serve per tornare indietro!», esclamo io.
«Ah, quindi avete i quattro oggetti!»
«Quattro? Non erano tre?», chiedo io.
«No. Erano quattro.», mi dice la Araton. «Io e mio fratello non avevamo oggetti quando siamo arrivati qui. Il quarto oggetto è: il mio sangue», sussurra lei con la testa bassa. «Sono stanca di questa vita! Non la sopporto più! E onestamente vorrei vivamente finirla!»
«Ma.. non posso permettertelo!», urlo io. Non voglio che qualcuno muoia per salvarmi.
«Si invece! E’ il mio destino! Se non lo farai tu, lo farò io!», esclama lei che, non facendoselo ripetere due volte, si ficca la spada nello stomaco, cadendo lentamente per terra. «Brucia…il…libro…»
Ecco, come se nulla fosse capitato, mi ritrovo sul mio divano. “Già? Cosa diavolo è successo?”
«Mamma! Sei lì? Dimmi, per caso mi sono addormentato?», urlo a mia madre.
«Addormentato? Ma non eri uscito?», risponde mia madre con una domanda. Solo ora ho capito, era tutto reale. Totalmente reale e a quanto pare, ho finito la storia. Il libro dev’essere bruciato.
“Cosa diavolo ci faccio io qui? Non saro mica un Araton?”, penso, controllandomi ogni singola parte del corpo. “Sicuramente sarà tutto un sogno da cui mi sveglierò presto!”. A quanto pare ogni singolo luogo risulta uguale a quello descritto dal libro. Io, già conoscente della via da seguire, arrivo al castello e mi ritrovo davanti delle enormi Carte da Gioco con il Simbolo di Picche. Sicuramente saranno i sorveglianti della Sala Reale.
«Vorrei parlare con l’Araton!», dico io con voce calma e quasi balbettando, senza ottenere risposta.
« Devo farlo! Per favore!», supplico.
«Scusa, non è possibile!», mi risponde nuovamente la guardia stavolta con un volto impietosito.
«Lascialo passare!», dice una voce sublime dall’interno della sala. Una voce tanto innocente, di cui è bastato udirne il suono un attimo per mandarmi con la testa fra le nuvole!
Vedo uscire una bellissima ragazza, bionda e con un abito totalmente bianco con disegnato un’ asso di Picche. «Qual è il tuo nome, straniero?»
«L…Lèon!», dico con un filo di voce. Quella ragazza è tanto bella quanto pericolosa. Non accenna nemmeno ad un sorriso di benvenuto, solo ad uno sguardo freddo, vuoto. «Potrei parlarle? Le do del lei, se non le dispiace!»
«Chiamami come vuoi, non mi fa alcuna differenza. Entra pure!», dice voltandomi le spalle e iniziando a camminare verso il suo trono.
«Scusami…Ops, mi scusi. Sono arrivato qui, dal nulla. Non so nemmeno com’è stato possibile! Stavo serenamente leggendo un libro e mi ritrovo qui, dal nulla. Mi scusi, ma sono totalmente spaesato!»
«Come? Starai scherzando! Come puoi essere qui? Dio mio, un’altra volta! E’ successo un’altra volta!», urla lei prendendomi per mano e portandomi in alto ad una torre. « Devo parlarvi! E’ arrivato un nuovo “Straniero”!», dice con tono nervoso a due anziani con una barba lunghissima, seduti ad un tavolo.
«Cosa? Mia signora, sta parlando seriamente? Lui è nuovo?», aggiunge uno di loro, il più basso.
« Dai, non mi vorrete dire che ora divento un..Araton!», rispondo ironicamente esplodendo a ridere e seguito da uno schiaffo dietro la nuca dalla ragazza.
«Taci, idiota! Sentite dobbiamo risolvere, deve tornare nel suo mondo, non può stare qui! C’è un modo?», chiede lei.
«In fondo un modo c’è. Dovete trovare gli oggetti dei precedenti Ataron!», risponde il secondo anziano.
«Bene, andremo ora stesso, senza perder tempo!», dice concludendo la conversazione e portandomi con sé.
Mi porta in una Cripta, dove avrei già dovuto immaginare cosa vi avrei trovato. Prese un piccolo forziere da cui raccolse un anello con una bellissima gemma verde. Sapevo già la sua storia. «Immagino tu sappia già di chi sia! Lo sai, no?», mi chiede lei.
«Si, della terza Araton!», rispondo con aria perplessa.
Correndo, mi portò subito al lago, mi chiedo come non mi ha portato subito alla cella. «Mi sbaglio o il fiore è andato perduto?»
«No, c’è ancora traccia. Dobbiamo solo trovarla. Ah! Trovata! Guarda li!», esclama indicando l’altra riva del lago. Non attento nemmeno che corro a prenderne la restante parte e ci dirigiamo subito alla cella.
«Ci incontriamo di nuovo, maledetta!», urla nervosamente ad una ragazza all’interno di quel posto buio.
«Mh, hai un buon odore. Ah, ora ricordo! La ragazza a cui ho ucciso il fratellino! Oh poverino, lui te lo aveva detto! Ma non conosco te», dice tentando di provocare la Araton e indicandomi.
«Non sono affari tuoi! Siamo qui per la spada!»
«La spada? Te la do volentieri! A cosa ti serve, scusa?», chiede la Araton consegnando la spada tranquillamente ma con i nostri sospetti.
«Mi serve per tornare indietro!», esclamo io.
«Ah, quindi avete i quattro oggetti!»
«Quattro? Non erano tre?», chiedo io.
«No. Erano quattro.», mi dice la Araton. «Io e mio fratello non avevamo oggetti quando siamo arrivati qui. Il quarto oggetto è: il mio sangue», sussurra lei con la testa bassa. «Sono stanca di questa vita! Non la sopporto più! E onestamente vorrei vivamente finirla!»
«Ma.. non posso permettertelo!», urlo io. Non voglio che qualcuno muoia per salvarmi.
«Si invece! E’ il mio destino! Se non lo farai tu, lo farò io!», esclama lei che, non facendoselo ripetere due volte, si ficca la spada nello stomaco, cadendo lentamente per terra. «Brucia…il…libro…»
Ecco, come se nulla fosse capitato, mi ritrovo sul mio divano. “Già? Cosa diavolo è successo?”
«Mamma! Sei lì? Dimmi, per caso mi sono addormentato?», urlo a mia madre.
«Addormentato? Ma non eri uscito?», risponde mia madre con una domanda. Solo ora ho capito, era tutto reale. Totalmente reale e a quanto pare, ho finito la storia. Il libro dev’essere bruciato.
ASSASSIN'S CREED III (FanFiction)
UNA VITA QUASI TRANQUILLA ALLA TENUTA
-Connor!- L'urlo strozzato riecheggiò ripetutamente nella fila di alberi presenti in cima alla montagna.
-Connor! Aiutami!- disse la ragazza. Era Myriam, la cacciatrice trovata da poco tempo nella tenuta Davenport. Myriam, una ragazza splendida, con i suoi capelli color terra di Siena Bruciata e con due occhi color castano chiaro. -Per favore aiutami, ho bisogno di una mano per costruire una capanna a nord della mansione.. Non so assolutamente da dove iniziare!-
-Tranquilla, ti aiuterò- disse Connor con aria decisa ma allo stesso tempo annoiata.
-Oh, ti ringrazio. Sei un uomo così gentile...Veramente raro in questi tempi. Ormai tra gli uomini della città non si sa se è più praticato lo stupro o il furto. Una rovina, una rovina!- Myriam, d'un tratto, cambiò espressione facciale. Da un volto preoccupato passò ad un volto pensieroso e con gli occhi rivolti a terra.
-Ti ricordo che io non sono un uomo della città.- aggiunse Connor.
Scese dall'albero su cui era seduto. Gli alberi per lui erano il posto in cui poteva abbandonarsi, in cui poteva sfrecciare libero in aria come un volatile. Si rilassava, si perdeva, era felice li su. Ricordava ancora la giornata in cui, ancora a quel tempo chiamato Ratonhnhakè:ton, fece da maestro a Kanen'tó:kon riguardo la caccia e le arrampicate. Si chiedeva come stessero dopo che li abbandonò per tentare di salvare il suo villaggio. Purtroppo, il sapere lo stato degli abitanti del Kanien'kehá:ka, restava solo una domanda la cui risposta restava ancora ignota.
-Allora, accompagnami al punto in cui vorresti piazzarti.- disse Connor mettendosi di fronte a lei, faccia a faccia. Myriam si sentiva a disagio, due occhi fragili color castano scuro la fissavano attentamente. Riusciva a vedere l'angoscia del suo passato soffocata in quello sguardo acceso.
-Di...là...- disse la Cacciatrice balbettando e allungando il passo per arrivare al posto deciso.
Camminando velocemente e trasformando una passeggiata in una corsa, arrivarono lì, ma c'era qualcosa che non andava. Le scorte lasciate in una sacca di pelle di cervo sparirono insieme alla faretra e alle armi restanti. Impossibile che sia stato un animale, non mirerebbe al furto di oggetti bellici.
-Benissimo, ora penso che abbiamo un problema.- disse Connor con un mezzo sorriso in faccia.
-Tu dici? Sono stata derubata! Io!- esclamò Myriam con una faccia sbalordita. -Ti prego, aiutami a trovare il ladro!-
-Non ci penserò su due volte. Salirò su uno di questi alberi. Ricorda, il miglior modo per trovare qualcuno o qualcosa è dall'alto!- disse Connor con aria saggia.
-Ma non mi dire..- aggiunse Myriam con ironia.
In fondo Connor sapeva il motivo del suo nervosismo, l'hanno derubata e non sapeva cosa ci fosse di tanto importante in quella sacca per renderla così. Impedendo alla ragazza di aggiungere parola, prese la rincorsa e si diresse verso un albero i cui rami a V gli facilitarono la salita. Ecco che provò di nuovo quella sensazione: la sensazione di libertà. Quel momento paradisiaco fu interrotto dalla voce stridula di Myriam -E' lì! Corri!-
-E' stato più facile del previsto.- disse Connor avviandosi in una corsa sugli alberi per aggirarlo e catturarlo meglio. I suoi piedi saltavano per i rami come quelli di un cavallo che saltava gli ostacoli. I suoi passi erano sincronizzati, aveva una perfetta sintonia col suo corpo ed era totalmente sicuro che avrebbe recuperato gli oggetti. “E’ maledettamente veloce” pensò tra sé e sé. “Ti acciufferò ugualmente!”
Il ladro non ebbe nemmeno il tempo di urlare che Connor lo atterrò.
-Bene, cos’abbiamo qui. Un uomo che irrompe in una proprietà privata e non solo, ma ruba pure scorte e armi ad una povera donna. Qualcosa da dire a riguardo?-
-Assolutamente no, nulla.- rispose l’uomo freddamente. Aveva dei capelli color biondo e una barba biondiccia e sudata. Si poteva capire che non aveva un soldo.
-Vai, per questa volta ti lascio libero. Ma attento, non osare entrare mai più in questa tenuta o ti ucciderò con le mie mani!- esclamò Connor, puntando il dito e cercando di intimorire l’uomo. In fondo, ci riuscì. L’uomo fuggì il più veloce possibile, di lui non vi era traccia all’orizzonte.
Connor tornò da Myriam, che attendeva il ritorno del ragazzo appoggiata ad un albero e con le braccia conserte. Appena lo vide tornare non poté trattenere un sussulto ed un sorrisino. Dopo un profondo sospiro, disse: -Ah, grazie a Dio ci sei riuscito. Ti sono ancora debitrice!-
-Tranquilla, in fondo c’era un po’ troppa monotonia!- disse Connor scoppiando a ridere.
-Bene, ragazzo monotono, ora pensiamo alla capanna- disse a sua volta Myriam con un sorriso scavato nel volto.
Lentamente iniziarono a creare e poi portare a termine, con l’aiuto del ragazzo, una capanna e una piccola piattaforma su un albero.
-Non so ancora come ringraziarti Connor, sono sbalordita!-
-Tranquilla, non ringraziarmi, in fondo aiuto gli amici.-
Myriam cercò di trattenersi ma non poté fare a meno. Si avvicino a lui e gli diede una lieve pacca sulla spalla. –Grazie, Connor.- disse con voce tranquilla.
-Bene, ora penso sia ora che io torni in casa, Achille sarà preoccupato!-
-D’accordo, io tento di catturare qualche animale, in fondo non sono qui per riposare, erro?-
-Per niente!- rispose Connor.
Arrivato in casa trovò Achille seduto sulla sua poltrona.
-Dove sei stato, ragazzo?-
-In giro, ho aiutato la nuova Cacciatrice con la sua postazione di caccia- rispose Connor fissandolo negli occhi.
-Spero tu l’abbia aiutata solo con quello!-
-Starai scherzando immagino. Non sono qui per riposare e per fare “altro”, erro?- chiese Connor ripetendo la stessa frase detta dalla ragazza.
-Assolutamente no, non sbaglio. Scendiamo di sotto.- rispose Achille con aria stanca e dopo aver tirato il candelabro attaccato a muro, scesero nel piano di sotto per pianificare la prossima mossa contro i soldati Inglesi.